Operazione Iceberg, i Marines conquistano Okinawa

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Un carro lanciafiamme (Marine Corps)
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Operazione Iceberg, la presa di Okinawa. Fu una battaglia cruenta, forse la più sanguinosa dell’intera seconda guerra mondiale. Tra aprile e giugno 1945 la 10^ armata americana guidata dal generale Simon Bolivar Byuckner Jr entrò in campo per l’operazione di conquista dell’isola presidiata dalla 32^ armata giapponese. I soldati del generale Mitsuru Ushijima erano pronti a combattere fino alla morte per difendere il suolo imperiale. L’attacco venne sferrato in grande stile; fu la più grande operazione anfibia sul fronte del Pacifico dagli alleati.

L’isola era pesantemente difesa; il generale Ushijima, per tutto il 1944 aveva organizzato un intricato complesso difensivo in grotte fortificate il cui fulcro era rappresentato dal castello di Shuri. Le divisioni statunitensi furono impegnate dal 1º aprile al 22 giugno per stanare i difensori, espugnare Shuri a costo di grandi sacrifici e inseguire i superstiti soldati imperiali fino alla parte sud di Okinawa, dove la maggior parte di essi preferì il suicidio alla resa. Alla fine della battaglia, la guarnigione giapponese era stata praticamente annientata, mentre gli americani persero circa il 30% degli effettivi. Ci furono 150mila vittime civili. Per la prima volta furono pesantemente coinvolti i civili che a migliaia si suicidarono pur di non cadere in mano ai soldati statunitensi, dipinti come demoni dalla propaganda giapponese.

Fu l’eccezionale violenza delle operazioni su Okinawa e la disperata determinazione dei combattenti nipponici a far cambiare strategia agli alti comandi statunitensi, che stavano pianificando l’invasione anfibia del Giappone. L’uso dell’atomica su Hiroshima e Nagasaki, gli effetti debilitanti del blocco navale del paese e l’intervento in guerra dell’Unione Sovietica, determinarono la resa nipponica, che avvenne il 15 agosto nella baia di Tokyo a bordo della corazzata Missouri. E’ possibile capire quello che accadde a Okinawa dalla brutale testimonianza di uno dei Marines che vi combatterono, Bill Pierce:

Okinawa è diventata una campagna brutale in cui  ferocia e  violenza superarono qualsiasi cosa avessimo visto nel Pacifico. Perdemmo l’80% dei nostri Marines, con 500 morti in una sola settimana. Abbiamo odiato i giapponesi covando nei loro confronti desiderio di vendetta. Erano animali. Tagliavano i peni dei ragazzi e se li mettevano in bocca. Decapitavano le persone, tagliavano loro le braccia, gli strappa gli occhi. Mettiamola così … non abbiamo fatto molti prigionieri.

Una notte, abbiamo potuto vedere circa 100 ombre avanzare sotto i bagliori. Abbiamo chiesto cosa dovremmo fare. “Falciateli”, fu la risposta. Così ci siamo lasciati andare e al mattino c’erano 80 donne e bambini sdraiati lì, morti, con accanto solo alcuni nemici. I giapponesi avevano spinto i civili davanti a loro. Li avevano usati per cercare di scappare.

La pioggia è diventata anche la nostra nemica. Non ci siamo mai asciugati. Siamo sbarcati con quello che stavamo indossando e un set di vestiti in più, e se erano bagnati o consumati, non faceva differenza. Eravamo sporchi, martoriati da pidocchi e pulci. Il fetore della morte era infinito. Puzzava ovunque tu fossi. I cadaveri dei caduti non venivano recuperati; restano lì dove erano morti. C’erano anche milioni di mosche e vermi, che si nutrivano di un numero sempre crescente di corpi sparsi sul campo di battaglia.

Potevamo restare seduti a mangiare una razione C accanto a un cadavere con un braccio alzato o una gamba maciullata. Non significava niente. Eravamo diventati completamente immuni a quell’orrore. Ci si induriva immediatamente; era per sopravvivere. Dormivi in ​​un buco ogni notte e qualsiasi cosa facessi poteva farti uccidere, incluso assolutamente niente

PFC. Bill Pierce, Weapons Co. 1st BN, 29th Marines, 6th Mar Div, Okinawa, 4 aprile 1945

I Marines attraversano i campi di battaglia di Okinawa piene di cadaveri giapponesi

(ph Marine Corps)

La pianificazione dell’attacco su Okinawa

Durante la conferenza del Cairo del dicembre 1943 il presidente Franklin Delano Roosevelt e il primo ministro Winston Churchill avevano delineato i piani per la prosecuzione della guerra nell’Oceano Pacifico, che avevano confermato la strategia della doppia linea d’avanzata: una attraverso il Pacifico centrale, affidata all’ammiraglio Chester Nimitz e una attraverso il Pacifico sud-occidentale che aveva il generale Douglas MacArthur come stratega. Il punto di unione erano le Filippine, dalle quali portare l’offensiva verso Formosa e le coste della Cina. Nel corso di queste operazioni la flotta del Pacifico condusse decine di sbarchi e distaccò un gruppo via via più nutrito a supporto del generale MacArthur; una forte componente aeronavale ebbe invece il compito di contrastare le possibili controffensive della marina imperiale. La rapidità dei successi nel 1944 spinse gli Alleati a rivedere i piani: MacArthur venne dirottato su Luzon, Formosa divenne l’obiettivo principale. Nimitz ebbe l’incarico dell’attacco, operazione Causeway affidata all’ammiraglio Raymond Spruance, comandante della Quinta Flotta e della sua esperta componente aeronavale, la Task force 58; Spruance a sua volta ebbe un comandante subordinato, il viceammiraglio Richmond Turner, capace ufficiale che aveva comandato l’apparato anfibio della Flotta del Pacifico sin dagli sbarchi a Guadalcanal. Del comando delle forze terrestri, riunite nell’appena costituita 10ª Armata, fu investito il tenente generale Simon Bolivar Buckner Jr., fino ad allora comandante generale in Alaska e protagonista della riconquista delle isole Aleutine. Questo nuovo piano di battaglia fu ugualmente modificato; tagliando le soste intermedie, si decise di puntare direttamente sulle isole che, coi loro aeroporti avrebbero garantito un corridoio verso il Giappone. Il primo passo era occupare prima una base sussidiaria su un’isola intermedia, di facile conquista, allo scopo di fornire un punto d’appoggio ai quadrimotori Boeing B-29 Superfortress. La scelta cadde su Iwo Jima nelle Bonin, che disponeva di due aeroporti. Il nuovo assetto prevedeva che MacArthur fosse il comandante dell’offensiva su Luzon, prevista per il 20 dicembre 1944. Chester Nimitz fu invece autorizzato a sbarcare su Iwo Jima. Una volta occupata l’isola sarebbe scattata l’operazione «Iceberg», lo sbarco sull’isola di Okinawa, che avrebbe potuto beneficiare delle ingenti forze aeronavali libere da altri impegni. Formosa divenne un obiettivo strategico successivo e l’operazione Causeway fu annullata: i quadri di comando, la struttura e le truppe già radunate furono invece riutilizzati.

La difesa giapponese del suolo Imperiale

Le ragazze della scuola di Chiran salutano i kamikaze in partenza

Le ragazze della scuola di Chiran salutano i kamikaze in partenza

L’avanzata americana del 1944 aveva fatto precipitare il Giappone nella realtà: la guerra era compromessa. Nella primavera del 1945 la situazione dell’Impero era ormai critica. Il Gran Quartier Generale imperiale mise allora a punto il piano Ten-Go per la difesa del ridotto cordone difensivo Hainan-costa cinese-Formosa-isole Ryūkyū, delle quali Okinawa era stata riconosciuta come bastione principale. Nel febbraio 1945, con la perdita di Manila e lo sbarco di divisioni marine su Iwo Jima, l’Impero giapponese fu definitivamente tagliato fuori dai rifornimenti di greggio, metalli e gomma provenienti dalle ricche Indie Orientali Olandesi: gli stati maggiori generali di esercito e marina concordarono nel ritenere Okinawa l’obiettivo della prossima offensiva nemica e intensificarono i lavori di fortificazione. Gli americani sapevano che sarebbe stata durissima. Già a Iwo Jima la battaglia era stata durissima. Il piano era lanciare attacchi aerei prima degli sbarchi, per neutralizzare le forze aeree giapponesi e appoggiare, prima e durante la campagna, l’aviazione dell’esercito proveniente dalle basi cinesi e del Pacifico sud-occidentale. Successivamente si sarebbe preparato il campo per l’azione anfibia e lo sbarco per creare una testa di ponte. La flotta avrebbe dovuto trasportare alle soglie del Giappone circa 182 000 uomini delle truppe d’assalto, mentre in totale sarebbero stati impiegati circa 548 000 uomini dell’esercito, della marina e dei marines, con l’appoggio in totale di 318 navi da combattimento e 1 139 navi ausiliarie, senza contare i mezzi da sbarco. La campagna di terra statunitense sarebbe stata comandata per la prima volta nella guerra del Pacifico da un generale dell’esercito, Simon Bolivar Buckner Jr., che aveva al suo comando la 10ª Armata statunitense composta dal III Corpo anfibio dei marines e il XXIV Corpo anfibio dell’esercito. Sul fronte opposto, primi rinforzi giapponesi per Okinawa cominciarono ad affluire nel giugno 1944 allo scopo di rimpinguare la 32ª Armata del tenente generale Masao Watanabe postavi a presidio. Furono anche arruolati gli autoctoni (detti Boeitai), cui dettero un addestramento di base ed equipaggiamento: in totale furono reclutati circa 20 000 uomini. Venne organizzato anche un reparto di giovanissimi volontari studenti liceali in gruppi chiamati Yekketsu (“Sangue e acciaio per le unità imperiali”) che avrebbero dovuto svolgere funzioni di collegamento ed eventualmente essere schierati in prima linea o in azioni di infiltrazione e guerriglia dopo l’invasione dell’isola. Nel complesso a schieramento finito il generale Ushijima aveva ai suoi ordini circa 100 000 uomini. Particolarmente curata ed enfatizzata dal Gran Quartier Generale imperiale fu la disponibilità di armamenti pesanti tra carri, artiglieria e reparti coi mortai. La maggioranza delle forze aeree disponibili fu concentrata su Kyūshū, E fu completata la riorganizzazione della 1ª Flotta aerea su quattro stormi

Il piano di attacco a Okinawa

I comandanti giapponesi dell'Isola di Okinawa

I comandanti giapponesi dell’Isola di Okinawa

Il 25 ottobre 1944 il quartier generale di Nimitz rese noto il piano d’operazione Iceberg. La campagna avrebbe dovuto svilupparsi in tre fasi: iniziale occupazione della parte meridionale di Okinawa e delle piccole isole adiacenti in modo da realizzare le infrastrutture (porto e insediamenti comando) per procedere con l’operazione, successivamente si sarebbe conquistata Ie Shima, isola situata a nord-ovest, e la porzione restante di Okinawa; ultimo passo, il rafforzamento delle posizioni alleate nelle isole Ryūkyū, con probabili operazioni contro le altre isole. La forza raccolta fu una delle pi imponenti della storia: la Quinta Flotta, componente navale e anfibia, contò oltre 40 portaerei, 18 navi da battaglia, 200 cacciatorpediniere, centinaia di mercantili, sommergibili, dragamine, cannoniere, mezzi da sbarco, navi d’appoggio, navi officina e decine di squadre di navi per trasporto truppe. Il 1º novembre ebbe ufficialmente inizio l’operazione Iceberg, e nel piano presentato a Turner per l’approvazione finale fu definitivamente stabilito di occupare le piccolissime isole di Keise Shima e le isole Kerama (Kerama Shotō) prima degli sbarchi principali a Okinawa. L’occupazione di Kerama era considerata particolarmente importante dal momento che questo gruppo di isole poteva fornire ancoraggi sicuri per le navi appoggio e basi rifornimento, evitando di operare al largo di Hagushi. Il piano logistico di Iceberg fu uno dei più elaborati del suo genere di tutta la seconda guerra mondiale: i movimenti dei mezzi da sbarco e della navi da carico dovevano essere programmati su distanze oceaniche, il che richiedeva una linea di rifornimenti di circa 9.000 chilometri attraverso il Pacifico, con undici differenti porti di raccolta. Inoltre il comando della 10ª Armata avrebbe dovuto formare un governo militare, che avrebbe avuto sotto la sua giurisdizione gli oltre 250.000 abitanti autoctoni. Anche il lavoro di spionaggio fu difficile, la 10ª Armata non riuscì mai ad avere notizie certe sull’entità numerica del nemico; la sezione controspionaggio G-2 riuscì tuttavia a essere abbastanza precisa a riguardo delle concezioni tattiche dei giapponesi. Si era stabilito che il nemico avrebbe organizzato una difesa in profondità nella parte meridionale di Okinawa, mentre le forze aeree giapponesi avrebbero sicuramente effettuato attacchi pesanti e ripetuti, soprattutto con la tattica dei kamikaze, che le forze statunitensi avevano conosciuto per la prima volta a Leyte.

L’isola fortificata dai giapponesi

La demolizione delle caverne occupate dai giapponesi (Marine Corps)

La demolizione delle caverne occupate dai giapponesi (Marine Corps)

I lavori di fortificazione di Okinawa erano in corso da tempo, con la costruzione di un gran numero di capisaldi, casematte e piazzole per cannoni che sfruttarono il rilievo accidentato dell’isola, tutti collegati fra loro da un complesso sistema di tunnel; persino le tombe cinesi sparse per la campagna attorno a Naha vennero trasformate in casematte. Da settembre, dopo gli sbarchi statunitensi a Peleliu e a Morotai, i lavori accelerarono, dato che i comandi giapponesi erano ormai certi che Formosa, le Ryūkyū e le Bonin sarebbero state invase al più tardi nella primavera 1945. Le grotte e le caverne divennero centri di comando e postazioni difensive, similmente a quanto era avvenuto per i lavori di fortificazione di Iwo Jima. Potendo contare sull’aviazione, si pianificò di lasciare sbarcare il nemico indisturbato attendendo l’abbassamento della sua vigilanza, per poi approfittare dell’andirivieni di mezzi navali per lanciare un attacco kamikaze in grande stile. Ma quando Ushijima fu privato della 9ª Divisione, dovette adottare una difesa decisamente più passiva e optò per concentrare il grosso delle sue forze nella porzione meridionale di Okinawa, dove fulcro di potenti linee difensive divennero la capitale storica Naha e l’abitato di Shuri. Lasciò praticamente sguarnita la zona centrale dell’isola e affidò a due battaglioni del 2º Reggimento fanteria (3.000 uomini) la difesa dell’aspra e poco abitata regione settentrionale.

I giapponesi sapevano che gli americani facevano massiccio impiego di artiglieria, che avevano la superiorità aerea; per questo decisero di organizzare solide postazioni difensive nell’interno sfruttando la natura impervia del terreno, dove speravano di resistere e sconfiggere gli invasori. Per attirare le truppe d’assalto americane verso l’interno, Ushijima ordinò ai suoi soldati di «evitare di aprire il fuoco troppo presto», e in questo senso ebbe un ruolo fondamentale il generale Isamu Chō, capo di stato maggiore di Ushijima, strenuo sostenitore delle fortificazioni sotterranee e in caverna. Il generale Chō fece costruire innumerevoli postazioni d’artiglieria di questo genere, collegate fra loro con camminamenti e gallerie sotterranee; gli ostacoli naturali e artificiali furono inoltre sistemati in modo tale da incolonnare le truppe d’invasione verso zone di fuoco prestabilite, mentre i declivi delle colline furono fortificati da postazioni di artiglieria, mortai e armi automatiche. I capisaldi sotterranei erano poi collegati con l’intero sistema difensivo della 32ª Armata e nello stesso tempo servivano a coordinare le piccole unità negli avamposti. Nel complesso essi formavano un anello importantissimo nella catena difensiva esterna di Shuri, dove si trovava il comando d’armata.

Si prepara lo sbarco a Okinawa

A partire da febbraio, le forze navali americane iniziarono a riunirsi a Ulithi, base navale di rifornimento e cantiere per la Flotta del Pacifico. Nel frattempo cominciarono anche gli attacchi preliminari su Okinawa, Formosa e i porti lungo la costa cinese meridionale, mentre i B-29 bombardarono la zona intorno a Tokyo. I risultati furono soddisfacenti, tanto che a metà febbraio la guarnigione giapponese di Okinawa era pressoché isolata; il generale Ushijima si rese conto della situazione solo dopo che le linee di comunicazione con Formosa e l’arcipelago giapponese erano state interrotte quasi completamente. Gli attacchi dei B-29 dalle basi cinesi, indiane, filippine, delle Marianne e delle Palau continuarono senza sosta contro Okinawa e contro Tokyo, Kōbe, Nagoya e Osaka. Il 22 marzo la flotta cominciò l’avvicinamento a Okinawa per i bombardamenti preparatori. Le prime unità impiegate furono i dragamine che cominciarono a operare due giorni prima del previsto sbarco della 77ª Divisione al largo di Kerama Retto e della costa sud-orientale dell’isola di Okinawa. Sicuri ormai che l’obiettivo americano fosse Okinawa, all’alba del 26 marzo i giapponesi fecero decollare le unità dell’8ª Squadra aerea dalle piste delle isole Sakishima (Sakishima guntō) per il primo attacco kamikaze contro le navi ancorate al largo delle Kerama. Il 26 marzo, mentre a Iwo Jima i marines stavano ancora combattendo, la 77ª Divisione di fanteria dell’esercito comandata dal generale Andrew Bruce sbarcò a sorpresa sulle isole situate a 28 chilometri a sud-ovest di Okinawa. Le difese giapponesi furono velocemente travolte in meno di quarantott’ore e i difensori non ebbero nemmeno il tempo di distruggere le installazioni, mentre gli americani trovarono nascosti in piccole insenature quasi 400 piccoli canotti a motore carichi di esplosivo, confermando i timori di un massiccio utilizzo nipponico di imbarcazioni suicide.

Prese le isole del piccolo arcipelago, iniziarono i lavori per installare una base idrovolanti, mentre la forza navale d’appoggio dell’ammiraglio William Blandy, comprendente 10 vecchie corazzate, 11 incrociatori e 24 cacciatorpediniere, incominciò a martellare la costa di Okinawa e la zona di Hagushi. La conquista delle Kerama fu un duro colpo per le difese giapponesi. Grazie alla conquista delle Kerama, con l’arrivo dei pezzi di artiglieria da 155mm (i famosi Long Tom) cominciò il martellamento della zona su di Okinawa, insieme ai bombardamenti dei B29.

Operazione Iceberg, via allo sbarco

BB-43-LVT-pronto allo sbarco su Okinawa (Us Navy)

(ph Us Navy)

I bombardamenti cessarono l’1 aprile in preparazione dello sbarco; agli americani quella tempesta di fuoco sembrò efficace, ma in realtà la principale linea difensiva nipponica era ancora intatta. A quel punto al largo di Okinawa le navi e i trasporti iniziarono le manovre di avvicinamento alle spiagge di Hagushi, preparandosi a sbarcare le ondate d’assalto. Alle 04:06 l’ammiraglio Turner diede l’ordine di iniziare gli sbarchi su Okinawa, alle 06:50 giunse la protezione aerea e dieci minuti dopo i primi mezzi da sbarco uscirono dal ventre delle navi da trasporto diretti sulle spiagge di Hagushi. Contemporaneamente i mezzi anfibi carichi di truppe e materiale furono messi in mare, mentre carri armati M4 Sherman equipaggiati con sistemi di galleggiamento entrarono direttamente in acqua dagli LST dirigendosi sulle spiagge. Centinaia di cannoniere che precedevano le formazioni di sbarco iniziarono il lancio di razzi e proiettili da 40 mm, con una intensità tale che la zona di sbarco fu tempestata da una concentrazione di fuoco pari a 25 proiettili ogni 100 m² nel raggio di 1 chilometro. All’ora H, le 08:30, le prime ondate iniziarono a sbarcare nelle zone assegnate: otto battaglioni del XXIV Corpo presero terra con successo a sud di Bishi Gawa, seguiti dalle successive ondate di fanteria e dai primi DUKW, che con i loro mortai da 4,2 pollici si dirigevano assieme ai carri Sherman verso l’interno per allargare la testa di ponte. A nord del Bishi Gawa il III Corpo marines attraversò la spiaggia senza incontrare alcuna resistenza, e circa un’ora dopo tutte le unità d’assalto della 1ª e 6ª Divisione erano ormai sbarcate contemporaneamente alla 7ª e alla 96ª Divisione a sud. Nel frattempo sulla costa sud-orientale di Okinawa la 2ª Divisione procedeva con le operazioni diversive di sbarco protetta da un’intensa cortina fumogena, consentendo a sette ondate di uomini, formate da 24 mezzi da sbarco ognuna, di prendere terra sulla spiaggia di Minatoga. Consapevoli della tattica attendista dei nemici, non appena raggiunsero un numero sufficiente le truppe d’assalto americane lasciarono le spiagge e si diressero cautamente verso l’interno agli aeroporti di Yontan e Kadena. Furono conquistati con facilità. A quel punto le truppe cominciarono ad allestire un perimetro difensivo, pronte ad affrontare eventuali attacchi notturni contro la testa di ponte che si allargava di circa 15 chilometri per circa 5 chilometri di profondità. Sull’isola c’erano oltre 60.000 uomini comprese le riserve, assieme alle artiglierie divisionali, a una buona parte delle forze corazzate e a circa 15.000 uomini dei servizi ausiliari di contraerea e di artiglieria mista. Due giorni dopo lo sbarco le forze dell’esercito avevano raggiunto in massa la costa orientale di Okinawa, la 7ª Divisione si era assicurata il controllo della penisola di Awashi, mentre la 96ª era avanzata di tre chilometri nell’interno sopraffacendo la tenace resistenza giapponese nei pressi di Kubasaki. Tutto sembrava così semplice, la resistenza minima, tanto che vennero annullate le restrizioni per l’avanzata verso nord.

L’avanzata verso settentrione

Un Avenger sgancia le sue bombe sulle postazioni giapponesi

Un Avenger sgancia le sue bombe sulle postazioni giapponesi

In dieci giorni gli americani avanzarono di altri 40 chilometri verso l’estremità della penisola di Motobu. Il 13 aprile il 22º marines occupò l’estremità settentrionale di Okinawa, Hedo Misaki, e tutti gli sforzi poterono essere concentrati sull’obiettivo principale, l’altura di Yae Take al centro della penisola di Motobu, dove i giapponesi avevano il principale centro di resistenza nel nord di Okinawa. Le forze giapponesi erano composte da 1.500 uomini, con a disposizione pezzi d’artiglieria da 75 e 150 mm e due cannoni navali da 6 pollici. L’attacco dei marines iniziò il 14 aprile quando due battaglioni del 4º marines occuparono l’altopiano di Toguchi a est, una zona dominante la costa occidentale e la relativa strada costiera. Altri due battaglioni del 29º marines avanzarono da Itomi occupando le alture che dominavano la strada tra Itomi e Manna. I combattimenti divennero quindi soprattutto azioni di guerriglia, con i giapponesi che sfruttavano la vegetazione per nascondersi e attaccare i marines solo quando questi erano avanzati in gruppo, colpendoli violentemente. Dopo un giorno di combattimenti corpo a corpo, la sera del 15 aprile il 4º marines si trovò nella posizione adatta per l’attacco finale a Yae Take, ormai circondata. All’alba del 16 aprile, con l’aiuto di tutta l’artiglieria terrestre, navale e aerea disponibile, il 1º Battaglione del 4º Reggimento marines attaccò i contrafforti sud-occidentali di Yae Take, che resistette fino alle 18:30 circa quando i giapponesi contrattaccarono subendo gravi perdite. La guarnigione di Udo era ormai sconfitta, ma nei due giorni seguenti le forze rimaste crearono notevoli problemi ai marines, infiltrandosi attraverso le linee nemiche per dirigersi a nord e far divampare la guerriglia. Il 19 aprile il 4º e il 29º marines iniziarono la marcia finale verso la costa settentrionale della penisola per eliminare definitivamente ogni presenza giapponese a Motobu. I marines appoggiati dai caccia Corsair muniti di razzi e bombe al napalm avanzarono speditamente eliminando ogni resistenza nemica, e il giorno seguente Sheperd poté comunicare a Buckner che nella penisola era cessata ogni resistenza nemica. In 14 giorni la 6ª Divisione era avanzata fino all’estremità settentrionale di Okinawa distante 85 chilometri dalle spiagge e occupato il principale centro di resistenza giapponese a nord, subendo perdite relativamente basse, calcolabili in 207 uomini e 757 feriti e sei dispersi, contro l’eliminazione totale delle forze di Udo. Non fu così semplice prendere la parte centrale di Okinawa, i comandi americani si resero subito conto che su questo fronte i nemici intendevano opporre una strenua resistenza, tanto che il generale Hodges affermò che le truppe giapponesi erano schierate «per una battaglia su larga scala».

Guerra brutale, senza pietà

La USS Bunker Hill colpita da due kamikaze

La USS Bunker Hill colpita da due kamikaze (ph Us Navy)

Prima di proseguire con l’assalto, i comandi della 10ª Armata decisero di rendere sicuri i propri fianchi neutralizzando le difese delle piccole isole costiere orientali, di fronte alla Baia di Chimu, e quelle dell’isolotto di Ie-Shima situato di fronte alla penisola di Motobu. L’occupazione di Ie-Shima fu un’operazione più complessa e impegnativa dato che sull’isolotto i giapponesi controllavano tre piste di volo che sarebbero state molto utili agli americani per il prosieguo della loro campagna nelle Ryūkyū. Gli sbarchi incontrarono fin da subito un’accanita resistenza da parte della guarnigione giapponese. Questa era rimasta nascosta grazie a un efficace lavoro di mimetizzazione che impedì agli americani di individuare con precisione le postazioni dei circa 7.000 difensori dell’isola. Il villaggio di Ie era stato trasformato in una fortezza e la strada che portava al centro delle difese, attraverso un terreno aperto, era dominata da numerose piazzole difensive posizionate sulle alture proprio di fronte agli attaccanti. La fanteria americana denominò questa installazione «Government House» e il territorio «Bloody Ridge». Ci vollero sei giorni di furiosi combattimenti per raggiungere la sommità di Bloody Ridge e occupare Government House.

Il corrispondente di guerra Ernie Pyle, caduto a Okinawa

Ernie Pyle

Tra le perdite anche il famoso corrispondente di guerra Ernie Pyle, veterano della campagna d’Italia, che il 18 aprile durante un trasferimento con la jeep assieme ad un comandante di reggimento cadde sotto il fuoco di una mitragliatrice giapponese sistemata nelle vicinanze del villaggio di Ie. I progressi della battaglia divennero lenti e sanguinosi; il caposaldo di Kakazu, ritenuto il punto chiave del sistema difensivo di Shuri, fu assaltato dai fanti americani per diversi giorni senza successo, nonostante il pesante supporto dell’artiglieria navale. I giapponesi poterono sfruttare il loro sistema di gallerie sotterranee e postazioni accuratamente mimetizzate per contrastare gli attacchi americani. Il 16 aprile, dopo i combattimenti di Tsugen, sopraggiunse anche il 105º fanteria, e il 17 tutte le forze presero posizione. Il 19 aprile 27 battaglioni di artiglieria effettuarono il bombardamento preparatorio supportati dall’artiglieria navale e da un’efficiente copertura aerea di 375 aerei che controllarono il fronte di circa 15 chilometri su cui doveva svolgersi l’attacco. Le forze giapponesi però riuscirono a sfuggire al bombardamento appunto nascondendosi sottoterra, e quando partì l’attacco gli americani furono contrastati molto duramente. La 27ª Divisione si arrestò davanti a Kakazu senza riuscire ad avanzare ulteriormente. Con l’arrivo di forze fresche, l’offensiva alleata prese una spinta aggiuntiva. Il III Corpo Marines e la 77ª Divisione di fanteria scesero sul campo di battaglia. La 77ª in particolare ebbe in sorte le posizioni nella scarpata Urasoe, che divenne il punto focale di feroci combattimenti poiché i giapponesi considerarono il possesso della posizione di vitale importanza. Il 1º maggio i marines di Del Valle saggiarono per la prima volta la tenace resistenza del nemico, che distrusse molti carri armati lanciati in una prima sortita, e il 2 maggio i marines tentarono una prima azione offensiva nel tentativo di superare il fiume Asa Gawa, in un’azione coordinata con le due divisioni del XXIV Corpo che tentarono l’assalto alle alture Urasoe. L’azione fallì e si ebbero unicamente brevi avanzate che costarono 54 morti, 233 feriti e 11 dispersi alla sola 1ª Divisione, mentre la 27ª Divisione non avanzò nemmeno di un metro. La ferocia della resistenza giapponese continuava imperterrita, e non appena alcune unità venivano distrutte erano velocemente rimpiazzate con truppe della riserva. Questa accanita resistenza ebbe però risvolti negativi per la 62ª Divisione giapponese, che pagò un alto tributo di perdite pari a circa la metà degli effettivi in appena un mese di scontri.

Il fallito contrattacco giapponese

Pilota Kamikaze prima del suo ultimo volo

Pilota Kamikaze prima del suo ultimo volo

Nonostante le perdite, il generale Ushijima a fine aprile decise di contrattaccare in grande stile, utilizzando la 24ª Divisione ancora intatta. Il contrattacco avrebbe avuto inizio all’ora Y, ossia alle 05 del 5 maggio (l’X-Day). L’azione fu preceduta dal quinto massiccio attacco kamikaze dall’inizio della battaglia per Okinawa, che il 3 maggio causò ingenti danni alle unità della flotta americana, e anticipata dallo sbarco di gruppi d’assalto anfibio, che all’alba del 4 maggio presero terra sulla spiaggia di Kuwan alle spalle della 1ª Divisione. La risposta dei marines agli sbarchi fu immediata e le teste di ponte furono presto neutralizzate, mentre sulla costa orientale gli sbarchi giapponesi ebbero risultati disastrosi, poiché la forza navale americana e la 7ª Divisione li contrastò tenacemente mettendo anticipatamente la parola fine al velleitario contrattacco giapponese. Nonostante l’attacco kamikaze, ben 134 aerei all’alba del 4 si alzarono in volo per appoggiare il XXIV Corpo bombardando le postazioni giapponesi, mentre sul fronte centrale gli attacchi della 24ª Divisione fallirono nel modo più completo. I giapponesi persero 6.237 uomini, mediamente il 75% degli effettivi di ogni unità andata all’attacco, e la 32ª Armata dovette abbandonare ogni velleità offensiva e ritirarsi sulle proprie posizioni difensive ad oltranza.

I Marines all’assalto finale per Okinawa

I War Dog americani pattugliano Okinawa

I War Dog americani pattugliano Okinawa

Dopo il contrattacco americano, I Marines scatenarono un’offensiva lungo la costa ovest. Superato il villaggio di Nakanishi dove incontrarono una tenace resistenza che portò a violentissimi scontri nelle vie della cittadina, spinsero su Jichaku e Uchima, oltre che sulle alture nord di Dakeshi e Awacha. L’attacco fu sferrato, anticipato da un enorme bombardamento d’artiglieria terrestre e navale, utilizzando la tecnica che il generale Buckner chiamò «Blowtorch-Corkscrew», consistente nell’impiego di lanciafiamme ed esplosivo per stanare dai rifugi sotterranei i giapponesi. Nel frattempo l’8 maggio venne diffusa la notizia della resa della Germania. Durante il 9 e il 10 la 6ª Divisione si diresse verso il fiume Asa Kawa per preparasi a superarlo e attaccare in forze la fortezza di Shuri in un attacco combinato e massiccio. Le piogge insistenti di maggio crearono moltissimi problemi all’avanzata dei marines; l’isola ormai butterata dalle esplosioni si trasformò in una enorme palude di fango e la costante minaccia dell’artiglieria nemica rendeva la situazione penosa per gli invasori di Okinawa. Dopo un attacco kamikaze tra il 9 e il 10, all’alba dell’11 maggio scattò l’offensiva americana lungo tutto il fronte; i combattimenti furono subito durissimi, e l’artiglieria nipponica, che a quanto pare non era stata toccata dai bombardamenti preparatori, fu un fattore determinante nello spezzare lo slancio degli attaccanti. La spinta americana però fu possente e tutte le unità utilizzate iniziarono a convergere verso Shuri, dove la battaglia si fece ancora più accanita e violenta a causa dell’artiglieria e dei numerosi contrattacchi giapponesi che sfociarono spesso in selvaggi corpo a corpo. Per alleggerire la pressione sul fronte, lo stesso giorno l’ammiraglio Ugaki lanciò un’offensiva kamikaze contro la flotta alleata, ma la reazione della contraerea anglo-americana fu decisa e 91 aerei furono abbattuti.

La sanguinosa battaglia per Shuri

Un F4U Corsair scarica i suoi razzi sulle truppe nemiche (Marine Corps)

Un F4U Corsair scarica i suoi razzi sulle truppe nemiche (Marine Corps)

Più i combattimenti si avvicinavano a Shuri più la resistenza giapponese aumentava in proporzione; quando il 22º marines della 6ª Divisione raggiunse Sugar Loaf, le linee del reggimento erano sparse e le perdite subite avevano ridotto la potenza combattiva al 60% circa, così Sheperd fece avanzare in supporto all’azione il 2/22, con l’ordine di difendere Sugar Loaf ad ogni costo. Questa posizione era di vitale importanza per gli americani in quanto rappresentava il vertice settentrionale del triangolo difensivo giapponese. Su un fronte di appena 900 metri i giapponesi scagliarono contro gli americani tutto il loro impeto con cariche banzai che causarono enormi perdite al 22º marines, tra le quali quella del maggiore Henry Courtney, Jr. che al comando del 2/22 resistette con i suoi uomini fino alla morte. All’alba del 15 solo 25 marines del gruppo di Courtney, e della compagnia fucilieri mandata a rinforzo nella notte, erano ancora vivi, e resistettero ancora fino alle 15 quando altre compagnie del 29º marines furono mandate in linea con l’ordine di conquistare le altre due alture. Nel tardo pomeriggio le unità del 1/29, nonostante la resistenza e il fitto fuoco proveniente da Shuri, giunsero su Half Moon, mentre il 3/29 combatteva per Horseshoe. In questo settore i giapponesi ebbero la meglio e costrinsero gli attaccanti a tornare sulle linee di partenza, e il giorno seguente un massiccio contrattacco fece indietreggiare tutta la linea americana ai punti di partenza. Il 16 maggio fu uno dei giorni più terribili per la 6ª Divisione in tutta la campagna di Okinawa: il 22º marines fu ridotto al 40% e fu in parte rimpiazzato dal 29º Reggimento, che prese in consegna il difficile ordine di attaccare sia Sugar Loaf sia Half Moon. Il 17 partì il nuovo attacco dei marines a Sugar Loaf preceduto da un intenso tiro di tutte le artiglierie disponibili, ma le difese integrate giapponesi furono un ostacolo quasi insormontabile per gli attaccanti. La prova del fuoco arrivò quello stesso giorno quando gli uomini furono mandati all’attacco di Half Moon e Horseshoe, dove a fine giornata si attestarono saldamente. Il contrattacco notturno fu violentissimo: alle 22 mortai e artiglierie cariche con proiettili al fosforo bianco colpirono le posizioni americane come preludio all’assalto giapponese, che terminò dopo due ore e mezza di durissimi combattimenti in cui gli americani resistettero tenacemente; i giapponesi lasciarono sul campo 500 uomini. Il 21 partì l’ennesimo attacco verso Sugar Loaf, con il 4º marines, appoggiato sulla destra dal 22º, che assaltò il declivio meridionale della collina verso il limite orientale di Horseshoe. L’avanzata fu rallentata da sanguinosi combattimenti e dalla pioggia caduta in mattinata che trasformò le buche delle esplosioni in enormi acquitrini, rendendo impossibile l’invio di rifornimenti e l’evacuazione dei feriti. Nonostante le difficoltà il 4º marines avanzò di oltre 200 m distruggendo la maggior parte delle installazioni difensive all’interno del rilievo, e attestandosi saldamente su una linea che andava da Horseshoe al fiume Asato Gawa, sul bordo sinistro dell’abitato costiero di Naha. Anche l’assalto a Wana Ridge sul versante opposto fu ugualmente sanguinoso. Il 17 mshhio partì l’attacco principale, e dopo aver annientato le difese sui fianchi dell’imboccatura di Wana Draw una compagnia di fanteria riuscì a stabilire un caposaldo sul versante nord della collina 55, mentre dall’altro versante i giapponesi li martellavano costantemente. La posizione di Wana Ridge fu quindi attaccata dal 3/7 del 5º marines, ma la resistenza giapponese aumentava via via che la fanteria avanzava nella gola, e la postazione denominata collina 110, che dominava le zone su cui avanzavano i marines e gli uomini della 77ª Dvisione, consentì ai giapponesi di opporsi efficacemente ai nemici. I combattimenti proseguirono sanguinosi fino al 21 maggio, quando il 2/1 avanzò impossessandosi della collina 110 e di Wana Ridge, mentre forze corazzate e di fanteria d’assalto occuparono interamente anche collina 55.

Lo sfondamento della linea giapponese

Uno Sherman in panne attende di essere rimorchiato (Marine Corps)

Uno Sherman in panne attende di essere rimorchiato (Marine Corps)

Dopo la presa di Sugar Loaf e Wana Ridge si aprì la porta: le posizioni collinose su cui erano trincerati i giapponesi caddero l’una dopo l’altra portando l’esercito a poche centinaia di metri da Shuri già il 17 maggio; a quel punto gli americani dovettero iniziare un’opera di rastrellamento e distruzione delle innumerevoli caverne e gallerie superate durante l’azione, e parallelamente le avanguardie della 77ª Divisione continuarono la loro cauta avanzata verso le difese di Shuri. Benché le divisioni sui fianchi della 10ª Armata avessero fatto notevoli progressi, la 1ª Divisione marines e la 77ª e la 96ª Divisione di fanteria impiegate al centro del fronte non avevano ottenuto grandi risultati. La fanatica resistenza giapponese, a cui si erano aggiunti pioggia e fango, ostacolava fortemente le truppe attaccanti, e gli americani poterono solo dedicarsi a rafforzare le zone già sotto il loro controllo. La pioggia continuò per nove giorni rendendo Okinawa un immenso pantano che risucchiava uomini e mezzi, e poiché gli aerei della TAF non potevano alzarsi in volo i rifornimenti poterono giungere alle truppe di terra solo a braccia e grazie all’enorme lavoro del genio; il traffico continuo di mezzi di sussistenza rese impraticabili le strade, e la 10ª Armata si bloccò. La situazione ebbe nuovo impulso il 26 maggio quando giunse la notizia che il nemico si stava preparando a uscire da Shuri: un aereo da ricognizione fu subito lanciato in volo su richiesta di Del Valle, e giunto sull’obiettivo confermò che un gran numero di giapponesi si stava ritirando da Shuri. Poco dopo l’incrociatore New Orleans sparò le prime salve contro il nemico in ritirata, seguito da tutte le altre navi e dall’aviazione dei marines che uscì in volo nonostante le condizioni meteo avverse. Il tentativo di Ushijima di ritirarsi di nascosto sfruttando il maltempo venne frustrato dalla massiccia reazione americana, che massacrò circa 4.000 uomini e distrusse centinaia tra carri, veicoli e pezzi d’artiglieria. Il 27 Buckner ordinò alle batterie navali di proseguire senza sosta il loro tiro contro il nemico e contro ogni strada e postazione nelle retrovie giapponesi, in modo tale da non dare tregua a Ushijima, mentre allo stesso tempo diede ordine ai suoi comandanti di divisione di continuare la pressione per non consentire ai giapponesi di riattestarsi sulla difensiva. Gli ultimi accaniti difensori giapponesi non poterono nulla contro le truppe d’assalto americane che si mossero occupando la sommità delle alture Shuri in prossimità del castello. Da quella posizione il comandante chiese a Del Valle il permesso di lanciare una compagnia d’assalto contro la fortezza, nonostante il castello fosse nella zona della 77ª Divisione; il generale acconsentì, e alle 10:15 la compagnia A del capitano Dusenbury conquistò il castello. Finalmente il caposaldo di Shuri era caduto, ma i giapponesi continuavano a difendere le colline a nord della città

La fine della battaglia di Okinawa

I marines festeggiano la vittoria (Marine Corps)

I marines festeggiano la vittoria (Marine Corps)

I giapponesi avevano lasciato Shuri temendo di finire accerchiati; l’obiettivo era permettere agli ultimi 50.000 difensori ancora in grado di combattere di proseguire nella battaglia fino all’estremo sacrificio. Si decise di spostare il principale caposaldo di resistenza nella penisola di Kiyamu. La penisola all’estremità meridionale di Okinawa si presentava adatta allo scopo soprattutto per le sue caratteristiche naturali, ed era dominata dalla scarpata Yaeju Dake – Yazu Dake dove si trovavano molte caverne naturali e artificiali in cui i giapponesi potevano riorganizzarsi e proteggersi dai bombardamenti. Le intense piogge favorirono Ushijima, anche se gli attacchi di Buckner non si fermarono mai del tutto, e il 31 maggio alcuni elementi della 7ª Divisione di fanteria e della 6ª Divisione marines si imbatterono in una tenace linea difensiva lungo il fiume Kokuba sulla costa occidentale. Dal giorno degli sbarchi le forze americane avevano ucciso 62.548 uomini e fatto solo 465 prigionieri in 61 giorni di lotta; la 10ª Armata aveva occupato tutta l’isola tranne una zona di 12 km² circa che rappresentava l’ultima sacca di resistenza giapponese, e fin dal primo giorno di avanzata oltre Shuri i comandi americani si accorsero che Ushijima e le sue truppe avrebbero offerto una resistenza caparbia fino all’ultimo uomo. Gli americani sferrarono l’ultimo assalto con uno sbarco per risalire dalla penisola e completare l’accerchiamento. Lo sbarco avvenne senza grossi problemi, ma subito dopo la spiaggia il terreno collinoso offrì ai difensori un ottimo appoggio per resistere e i marines dovettero lottare per dieci giorni prima di battere la guarnigione giapponese. I circa 1.500 difensori sfruttarono le caratteristiche del terreno, ma piano piano gli americani ebbero la meglio. Consapevole dell’imminente sconfitta, Ota si preparò a organizzare la resistenza finale congedandosi con Ushijima e con i superiori a Tokyo, e il 13 i marines sferrarono il loro ultimo e risolutivo attacco. Alle 17:50 del 13 giugno Sheperd poté riferire a Geiger che ogni resistenza nella penisola era ormai cessata: nei dieci giorni di combattimenti circa 5.000 giapponesi erano stati uccisi e 200 fatti prigionieri, contro le 1.608 perdite registrate tra i marines. Tutto ciò che restava della 32ª Armata, unità regolari e sbandati, si trovava ora bloccato fra il fronte dell’esercito americano e il mare. I giapponesi organizzarono quindi due centri isolati di resistenza finali, uno attorno a Medeera e l’altro nell’area di Mabuni. Il 19 giugno la 6ª Divisione iniziò il rastrellamento del settore sud-ovest che portò a termine il 21, mentre i giapponesi rinchiusi nelle posizioni di Yaeju e Yuza e tartassati dalle due divisioni di fanteria americane iniziarono ad arrendersi in piccoli gruppi. Attorno al quartier generale e a Medeera la resistenza continuò imperterrita fino al 21 giugno quando le truppe dei due corpi americani dichiararono cessata ogni forma di resistenza organizzata. Alle 13:05 del 21 giugno Geiger annunciò che l’isola di Okinawa era completamente occupata dalle forze americane, e il giorno dopo si tenne una cerimonia formale di alzabandiera della 10ª Armata, alla presenza di tutte le unità che avevano preso parte a Iceberg. Lo stesso 22 giugno Ushijima e Chō si tolsero la vita secondo il codice Bushidō, come la maggior parte delle loro truppe aveva fatto per evitare il disonore di cadere prigioniera. Il 25 giugno anche il quartier generale imperiale annunciò la fine delle operazioni e concentrò i suoi sforzi nella preparazione difensiva delle isole della madre patria. Per salvaguardare i reparti americani impegnati a trasformare Okinawa in una base fissa per ulteriori azioni contro il Giappone, il 23 il generale Stilwell ordinò alle cinque divisioni che avevano compiuto l’avanzata finale di effettuare un massiccio e coordinato rastrellamento della parte meridionale di Okinawa, che si concluse sette giorni dopo terminando definitivamente i combattimenti ad Okinawa.

Bilancio finale

La bandiera statunitense viene issata al termine di ogni resistenza organizzata ad Okinawa, 22 giugno 1945. L’operazione Iceberg dimostrò inoltre la validità della tattica anfibia sviluppata negli anni dal corpo dei marines e dalla marina, che diede una grande mano alle operazioni di terra con le numerosissime azioni di copertura di fuoco e di rifornimento per le truppe. Secondo lo storico Frank, la componente principale del successo di Okinawa fu la cooperazione fra le diverse armi, che collaborarono per smantellare le postazioni fortificate giapponesi assieme alle forze speciali, alle manovre d’aggiramento facilitate da specifici sbarchi anfibi di piccola portata e alle forze corazzate che snidarono moltissime posizioni nemiche col fuoco d’artiglieria e con i lanciafiamme. Ma la campagna fu caratterizzata anche dall’efficace tattica nipponica: contrariamente a quanto avvenuto in precedenti occasioni, i giapponesi non attaccarono direttamente la testa di ponte ma attuarono una difesa in profondità simile a quella messa in atto durante la riconquista americana delle Filippine. Le opere di fortificazione attorno a Shuri e le postazioni di armi automatiche in cima alle colline e collegate l’una all’altra con gallerie, consentirono ad Ushijima di mettere in pratica una tattica difensiva caparbia ed efficace, che permise al Giappone di continuare i lavori di difesa del territorio nazionale. I bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki annulleranno poi tutti questi sforzi, ma Ushijima ebbe comunque il merito di aver compiuto il compito affidatogli. Secondo gli storici gli americani persero circa 4.000 uomini, circa 3000 erano dei Marines; gli aerei distrutti furono 763 e 38 le navi affondate. I giapponesi avevano perso 16 navi e l’incredibile cifra di 7.800 aerei, oltre un migliaio dei quali in missioni suicide, mentre a terra trovarono la morte praticamente tutte le truppe a difesa di Okinawa. La stragrande maggioranza delle truppe nipponiche sull’isola, i marinai nelle basi a terra, i fucilieri di prima linea e perfino gli scritturali, i cuochi e gli addetti ai servizi del lavoro locali trovarono il modo di suicidarsi; in tutto i prigionieri furono circa 7.400, compresi i feriti troppo gravi per riuscire a suicidarsi: tutti gli altri, circa 110.000 in totale, morirono in combattimento o compiendo hara-kiri, rifiutando di arrendersi. La conquista di Okinawa rappresentò un tremendo monito per quel che le forze americane avrebbero dovuto aspettarsi man mano che la guerra nel Pacifico di avvicinava al perimetro difensivo dell’arcipelago nipponico. Non a caso l’opzione nucleare divenne la prevalente. A Okinawa gli americani avvano perso il 35% degli effettivi; una cifra analoga era ipotizzabile anche nell’attacco contro Kyūshū, la prima delle isole giapponesi prescelte per l’invasione (operazione Olympic). Sui 767 000 previsti nell’operazione, il totale dei morti e dei feriti sarebbe potuto quindi arrivare a 268 000 uomini, vale a dire quanti soldati gli Stati Uniti avevano perso fino a quel momento in tutto il mondo su tutti i fronti. Il piano del comitato dei capi di stato maggiore redatto a Washington a fine maggio prevedeva l’invasione di Kyūshū nell’autunno del 1945, seguita dall’invasione di Honshū (operazione Coronet) nel marzo 1946. L’esercito, la cui linea era in buona parte decisa da MacArthur, prevedeva che la guerra si sarebbe conclusa solo con una invasione, mentre l’aviazione e la marina sostenevano che l’occupazione delle coste cinesi avrebbe permesso ai bombardieri di battere la resistenza giapponese. Tuttavia il bombardamento strategico attuato contro il Giappone, seppur devastante, fino a quel momento non aveva intaccato la volontà del governo giapponese di continuare la guerra. I comandanti militari giapponesi, che di fatto controllavano il paese, non avevano nessuna intenzione di arrendersi e a metà estate il Governo degli Stati Uniti iniziò a perdere la pazienza nei confronti dell’intransigenza giapponese cedendo alla tentazione di farla finita in un modo unico e incontestabilmente decisivo. Washington, grazie alle intercettazioni di Magic, sapeva che il governo di Suzuki Kantarō (succeduto a Koiso in aprile) stava intavolando negoziati segreti con i sovietici, che sperava facessero da mediatori, e sapeva inoltre che la formula della «resa incondizionata» formulata nel 1943 era considerata una seria minaccia dai giapponesi al loro sacro sistema imperiale. Ma mentre i sovietici non pensavano affatto di fare i mediatori, la volontà degli Stati Uniti di aspettare cominciò a ridursi.

La scelta nucleare

L’equipaggio del B-29 “Enola Gay” alle Isole Marianne. Il colonnello pilota Paul W. Tibbets al centro (ph Usaf)

Il 21 luglio a Potsdam, Truman e Churchill si erano detti d’accordo, in linea di principio, all’utilizzo della nuova arma, e il 25 luglio ne venne informato anche Stalin. Il giorno dopo Truman ordinò al generale Carl Spaatz, comandante delle forze aeree strategiche, di lanciare la prima bomba speciale non appena le condizioni meteorologiche avessero consentito il bombardamento a vista dopo il 3 agosto, su uno degli obiettivi selezionati tra Hiroshima, Kokura, Niigata e Nagasaki; la decisione di porre fine alla seconda guerra mondiale con una super-arma rivoluzionaria era stata presa. Il 6 agosto il B-29 Enola Gay sganciò la bomba all’uranio-235 “Little Boy” su Hiroshima, e poche ore dopo, mentre fra le rovine della città giacevano 78.000 persone, la Casa Bianca emanò la prima richiesta di resa incondizionata ai giapponesi, minacciando altri attacchi. Non avendo ricevuto risposta il 9 agosto gli americani rinnovarono l’attacco, facendo partire un altro B-29 da Tinian che bombardò Nagasaki con una seconda atomica, “Fat Man”, causando la morte istantanea di 25.000 persone. L’8 agosto l’Unione Sovietica dichiarò guerra al Giappone e quello stesso 9 agosto attaccò la Manciuria, dove gli scontri proseguirono fino al 20 agosto, giorno in cui tutte le forze giapponesi nel Pacifico si arresero a seguito dell’annuncio di resa dell’imperatore Hirohito avvenuto il 15 agosto.

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Seconda guerra
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